I poveri al cinema e il senso di colpa che non passa

“I poveri dormivano da piedi coi nipoti”. Insomma, accalcati nel letto, alternando piedi e teste. Inutile cercare questa povertà pasoliniana, che si accompagna al bianco e nero neorealista, in Sole a catinelle di Checco Zalone, diretto da Gennaro Nunziante. Film campione d’incassi, nel 2013 e non solo, che l’industria cinematografica italiana avrebbe dovuto sventolare come una bandiera, studiandolo più seriamente di quanto non sembra disposta a fare. L’adesione entusiasta non è richiesta, la conoscenza della materia sì, per i commentatori di costume – solo da noi “opinionista” vuol dire “dico la mia senza aver visto il film” – e per i critici di cinema.

Quando in Francia nel 2008 esplose il fenomeno Bienvenue chez les Ch’tis di Danny Boon – vanta ben due remake italiani diretti da Luca Miniero, Benvenuti al sud e Benvenuti al nord – furono organizzate proiezioni a prezzo ridotto per famiglie e anziani. Lo stratosferico numero di biglietti staccati venne celebrato anche dai registi rivali. I sapienti cercarono di capire prima di giudicare. La geografia del cinema francese conquistò alla commedia una regione che fino ad allora aveva ospitato solo storie di degrado e follia.

Da noi non è successo. I poveri piacciono ancora nella loro versione neorealista e pasoliniana che li pretende portatori di valori sani e genuini, purché si accontentino di quello che (non) hanno e in silenzio tirino la carretta. Ogni tentativo di miglioramento li colloca subito nella categoria degli arrivisti che mettono il denaro prima dei sani valori della vita, e subito scatta la mannaia del moralismo. Piacciono anche quando fanno cinema e hanno poco successo, perché si sa che l’artista vero ha pensieri tanto elevati che le masse faticano a capirli. Un film che incassa è sospetto per definizione, segno di un cedimento che va sanzionato con cipiglio.

Sole a catinelle ha tutti gli estremi per la sanzione. Dentro e fuori dal film. Il produttore Pietro Valsecchi è stato accusato di non far nulla per i giovani registi che anelano a girare il loro film di “qualità”, come se Checco Zalone avesse prosciugato tutte le risorse (dallo stato non ha preso un euro di contributi). Per protagonista, ha un povero che non si accontenta. Vuole farcela, vuole il televisore a schermo piatto così grande che vederlo nel mini-appartamento è impossibile. Vuole la macchina bella (in bici va la maestra democratica che non vuole bocciargli il figlio neppure in condotta). Vuole spendere in elettricità tutto quel che la zia molisana ha risparmiato nei decenni. Vuole anche mangiarsi un piatto di pasta più gustoso di un solo raviolo in un piatto gigantesco. Vuole farsi le vacanze predendo il traghetto come la famiglia immigrata degli amici del figlio. Vuole, e non gli viene in mente neppure per un attimo di vergognarsene o di inneggiare alla decrescita felice.

Non sembrano i disastri del berlusconismo, etichetta tuttofare che oggi traccia la linea tra buoni e cattivi. Elio Petri girò Il maestro di Vigevano, dal romanzo di Lucio Mastronardi, nel 1963, in pieno boom economico: il maestro elementare Mombelli si lascia convincere dalla moglie, che si vergogna di portare maglie di lana rappezzate sotto il vestito, a mettere su una fabbrichetta di scarpe. Ebbe anche lui i suoi detrattori, che preferivano storie di impegno civile come Le mani sulla città di Francesco Rosi. Oggi la controversia si ripropone con Il capitale umano di Paolo Virzì, celebrato per il suo disprezzo contro i ricchi che hanno rovinato il paese. Applaudirlo è una presa di posizione morale, anche se il regista ha sostituito alla lezione di Zavattini – gli sceneggiatori devono ogni tanto prendere il tram – l’invito a curiosare nel paese reale via twitter.

Al cinema il maestro di Vigevano era Alberto Sordi, l’attore a cui Zalone più somiglia per la bravura, la capacità di recitare con il corpo, la millimetrica precisione dei tempi comici. Senza fare imitazioni ma costruendo personaggi, in controtendenza con i comici italiani  che oggi sembrano tutti avere per modello Alighiero Noschese, mai ricordato però da nessuno (sognano di essere Totò, per via dello sguardo di disprezzo che con il passare dei decenni si trasforma in culto). Atteggiamento già seppellito con una risata in Cado dalle nubi, primo film della trilogia zaloniana: l’aspirante cantante deciso ad arrivare “all’acme del successo” rifiuta un piccolo aumento di stipendio perché gli artisti devono soffrire.

Critici e commentatori hanno genericamente parlato di evasione: gli spettatori in tempi di crisi vogliono ridere e affollano le sale che proiettano commedie. La distanza tra il film di Zalone e la numerosa concorrenza (primi fra tutti i film di Natale da qualche anno in discesa libera, e non solo perché sono in sovrannumero, moltiplicati dalla ricorrenza pasquale, da San Valentino, dall’estate con il cinecocomero) dovrebbe suggerire che altri elementi entrano nella conta. Sole a catinelle racconta un poveraccio che non appartiene al club dei garantiti: non ha la famiglia giusta, le amicizie giuste, l’istruzione giusta. Deve arrangiarsi vendendo aspirapolveri ai parenti (e i commessi viaggiatori se la passano male da quando infilavano la scarpa nella porta mezza aperta, con il campionario di spazzole al seguito). Però si dà da fare: l’ambizione e la voglia di scalata economica e sociale non l’ha inventata il berlusconismo, è vecchia quanto il mondo. Che poi in Italia tutto questo abbia preso la via dell’impiego fisso – anzi inamovibile, con possibilità di arrotondare con un lavoretto in nero – fa parte del carattere nazionale, e di certo non ha fatto granché per rendere il paese prospero e vincente.

Sole a catinelle certifica che tutto questo appartiene al passato, già un bel passo avanti rispetto ai sociologi che lamentano la piaga dei giovani precari, in cerca di un lavoro all’altezza delle loro aspirazioni (intellettuali, perlopiù), coltivate durante gli studi universitari (scienze della comunicazione, perlopiù). Come ha fotografato la penuria di bambini che, sempre secondo i sociologi, sarebbe dovuta al senso di sfiducia nel futuro: “Sono alti così, giocano…”, spiega ai vecchietti molisani. Cura un raro bambino ricco dal “mutismo selettivo” che la psicologa (le facoltà di scienze del comportamento sono altrettanto frequentate e i professionisti si fanno pubblicità promettendo “il complicato diventa semplice”, come se la vita di suo non fosse un bel groviglio) non era riuscita a guarire. Lo fa alzando la voce, finché il piccino risponde. Riuscirà a “spegnerlo” di nuovo, in una delle tante scene esilaranti.

Il film racconta i vizi aspirazionali dei poveri e anche i vizi aspirazionali dei benestanti che credono di fare le cose giuste e disprezzano chi non le fa. Girano film con attrici magrissime e tormentate (titolo: Anoressia mon amour), espongono aspirapolveri nelle gallerie d’arte, organizzano feste di beneficenza con preti che si chiamano Don Fabergé. L’irruzione di Checco Zalone – maglietta con Che Guevara, e sa che ci starebbe bene anche il borsetto della stessa marca, se solo fosse riuscito a procurarselo – è rovinosa quanto le gag di Sacha Baron Cohen nei panni di Borat. Colpo di genio, la lezione di yoga per ragazzini: “No, il mio sa già respirare. Lo fa dalla nascita”. In una battuta sola, spazza via tutto il chiacchiericcio contemporaneo che ripropone come sofisticate regole di vita i consigli delle nonne. Onore e applausi a Checco Zalone. I detrattori di oggi saranno condannati a riscoprirlo quando un grande festival cinematografico, tra una ventina d’anni, gli dedicherà una retrospettiva.

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