Devozione o furia cieca? A proposito della strage di Charlie Hebdo

Il danno peggiore derivante dal caos disumano e dalle proteste che stanno avendo luogo in Francia è rappresentato dal fatto che, a più di dieci anni di distanza dall’11 settembre 2001, quanti puntavano a un conflitto globale tra Islam e Occidente rischiano di avere la meglio, mentre quelli tra noi che hanno sempre aspirato al dialogo, al confronto e a un’analisi critica che, nel confronto con intellettuali e accademici musulmani, attraversassero queste divisioni corrono ora il pericolo di essere liquidati come “anti-anti-islamici”.

Michael Walzer ha recentemente pubblicato sul sito di Dissent un articolo fortemente critico nei confronti di quella parte di sinistra americana che si è sempre astenuta dal biasimare l’Islam, gli islamisti fondamentalisti e i jihadisti, in cui avanza l’ipotesi che le tre categorie possano sfociare l’una nell’altra con molta meno soluzione di continuità rispetto a quanto molti credano. Se ci ostiniamo a non ritrovare nella religione musulmana in sé perlomeno una parte delle radici connaturate alle azioni violente perpetrate dall’Islam politico, rischiamo di spalleggiare tali movimenti invece di contrastarli.

Tuttavia, anche prima che si verificasse quest’orrore in Francia, un numero consistente di intellettuali in Europa, America e anche altrove già condivideva il punto di vista di Michael Walzer. È forse una coincidenza che proprio la settimana dell’attacco a Charlie Hebdo sia uscito il nuovo romanzo di  Michel Houellebecq, La Soumission, in cui si immagina che nel 2020 il presidente della Francia sarà un musulmano? E un altro bestseller uscito di recente, Le Suicide di Ėric Zemmour, attacca i poteri consolidati e la sinistra per l’inettitudine e miopia dimostrate nell’interpretare l’islamizzazione, la globalizzazione e l’americanizzazione. L’organizzazione tedesca PEGIDA, il cui acronimo in lingua originale vuol dire  “Europei Patriottici contro l’Islamizzazione dell’Occidente”, ha riunito in una marcia di protesta, il 5 gennaio a Dresda, 18 mila persone. Ovunque in Europa stiamo assistendo all’ascesa dei partiti anti–immigrazione, dove “anti-immigrazione” sembra ormai essere fondamentalmente sinonimo di “anti-musulmano”. Siamo di fronte a un “Momento di Pericolo per l’Europa” (Steven Erlanger, New York Times, 8 gennaio 2015).

Lo stesso giorno dell’attacco a Charlie Hebdo sono morte 26 persone in un attentato in Yemen, e ancor più vittime ci sono state in Iraq. Chi le conta più? Due settimane fa sono stati massacrati più di 130 ragazzini in una scuola di Peshawar, in Pakistan. Ogni settimana centinaia di rifugiati approdano sulle coste europee dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afghanistan, dalla Libia, dalla Somalia, ecc. Un’ampia fetta del pianeta, che spazia dall’Africa settentrionale e nord-orientale a vaste aree del Medio Oriente estendendosi fino ai monti dell’Afghanistan, è in preda a una spirale di morte, in cui Stati e società si disintegrano a ritmi vertiginosi. Che sta succedendo in questa porzione di mondo? E in che modo esattamente quel che sta accadendo si collega ai recenti episodi di violenza in Europa, Australia, Canada e – c’è da aspettarselo presto – negli Stati Uniti?

Non basta ripetere i vecchi e triti luoghi comuni sull’Islam e la violenza, il Corano e l’anti-Illuminismo, il dovere di battersi per l’Occidente… Sì sì, è tutto vero ma ci aiuta a comprendere per quale motivo – con le sole eccezioni di Paesi come la Turchia, la Giordania, l’Iran, il Marocco e la Tunisia – non si riesca a mantenere una situazione di equilibrio e stabilità in Siria, Egitto, Libia, Pakistan, Afghanistan, Yemen? O quando ci si riesce, come negli Emirati Arabi e in Arabia Saudita, ciò avviene al prezzo di repressione e corruzione sfrenate?

Lo stato in cui versano queste società non solo sta generando una furia cieca in parecchi giovani musulmani (soprattutto uomini), ma sta anche dando origine a un qualcosa di più profondo che chiamerò “sconforto di un’identità collettiva”. A ciò non si può porre rimedio dichiarando guerra al Jihad. Per molti giovani musulmani pare non esserci via d’uscita da questo circolo vizioso di violenza, corruzione e miseria. Se lo aggiungiamo alla disoccupazione e all’emarginazione, al disprezzo e al sarcasmo, allo sfruttamento e al ludibrio di cui molti sono vittima – a Parigi come a Londra, Berlino o Atene, Roma o Amsterdam, Oslo o Copenaghen – ecco che abbiamo terreno fertile per il reclutamento e l’addestramento di jihadisti pronti a unirsi alle centinaia di gruppi spuntati ovunque come funghi in tutto il Medio Oriente. I fratelli Kouachi sono stati addestrati in Yemen e hanno viaggiato in tutta la Siria. Fanno chiaramente parte di una rete globale di combattenti che oggi circolano incessantemente dentro e fuori le zone di conflitto in Medio Oriente, Nord Africa, Pakistan, Afghanistan e addirittura Cecenia (si dice che in Siria siano tantissimi i ceceni che combattono con l’Isis o Isil).

Come sottolineato dal mio collega Andrew March in un articolo di risposta a Michael Walzer, “loro sono qui perché noi siamo lì”. Stati Uniti e potenze europee sono tutti, in un modo o nell’altro, voce in capitolo nel destino di questa regione, e lo sono – almeno per quanto riguarda l’Europa – da secoli. E dopo aver destabilizzato l’Iraq e aver supportato per anni un regime sciita che ha emarginato ed esasperato i sunniti iracheni (alcuni dei quali costituiscono oggi una parte integrante delle forze dell’Isis o dell’Isil), l’America si è ritrovata costretta a reintervenire sganciando bombe e inviando droni in quell’area.

Intendiamoci: il bombardamento dell’Isis per salvare gli yazidi dall’incombente genocidio era giustificato; e vorrei fosse stato fatto di più per risparmiare la città curda di Kobane dalle milizie dell’Isis. Ma agli occhi della maggior parte degli abitanti della regione, stretti tra la brutalità del regime siriano, il potere in calo dell’opposizione (che noi abbiamo abbandonato) e l’accecante violenza dell’Isis, le bombe occidentali sono solo un’ennesima componente di quello stesso caos e destino cieco che non riescono a comprendere né a controllare. Ecco perché tanti preferiscono morire sulle coste del Mediterraneo piuttosto che sotto le bombe a grappolo e per gli agenti chimici del regime siriano o squarciati dalle spade dell’Isis.

No, io non credo che l’attacco a Charlie Hebdo e la violenza che ne è derivata siano solo una reazione a un’offesa al Profeta Maometto o all’Islam; e non penso nemmeno che sia questione di ciò che il Corano dice o non dice a proposito di blasfemia e apostasia. Nel profondo, è tutto innescato dalla rabbia dei musulmani e dallo sconforto di cui sono preda gli arabi musulmani nella loro identità collettiva. I riformatori dell’Islam al giorno d’oggi sono pochi e scollegati tra loro, mentre sono i predicatori itineranti e intransigenti come al-Madoudi a catturare le folle di tutto il mondo. Ma anche ammesso che esistesse un movimento riformista degno di nota in seno all’Islam, non penso che basterebbe. Quel che serve è un programma regionale o internazionale sulla scala di un Piano Marshall per il mondo arabo musulmano, che investa in infrastrutture, comunicazione, agricoltura, industria, sanità e istruzione. Così come abbiamo estratto l’Europa dalle proprie macerie dopo la Seconda Guerra mondiale, allo stesso modo oggi bisogna resuscitare questa regione che rischia ormai di morire dissanguata.

In Europa sono morte almeno quaranta milioni di persone prima che si riuscisse a ristabilire la pace, che nascesse l’Unione Europea e che la Germania potesse tornare agli standard di vita di cui aveva goduto prima della Seconda Guerra mondiale. Un bilancio complessivo delle devastazioni e delle guerre occorse in tutto il Medio Oriente non è stato ancora fatto. Per me le vittime si aggirano intorno ai 5-8 milioni. Vogliamo aspettare di toccare gli stessi livelli di scempio dell’Europa prima di renderci conto che l’unico modo per mettere fine allo sconforto di cui soffrono molti musulmani nella propria identità collettiva è quello di dar loro una speranza? Non era proprio questa la promessa insita nelle rivoluzioni della Primavera Araba? Quelle rivoluzioni sono fallite, a mio avviso, per almeno tre motivi:

a. Molti regimi del Medio Oriente sono in mano o a oligarchie reazionarie appoggiate dall’Occidente – come in Arabia Saudita o negli Emirati Arabi – o di un’alternanza di regimi civili-militari nati dai colpi di Stato che hanno rovesciato tali oligarchie (nasserismo e baathismo in Egitto e Siria; rivoluzione Gheddafi in Libia). Nei secoli, le potenze occidentali (ma anche l’Unione Sovietica prima e la Russia poi) hanno supportato l’uno o l’altro di questi gruppi per i propri interessi. Società civile e rappresentatività politica sono deboli e allo stremo, e non appena la loro forza prende un minimo piede viene subito repressa;

b. La regione continua a subire l’influenza del gioco delle superpotenze. La Cia e i servizi segreti britannici hanno deposto nel 1953 il regime di Mossadeq, artefice della nazionalizzazione dell’industria petrolifera iraniana e sospettato di comunismo, spostando il proprio appoggio sulla fazione del corrotto Scià Pahlavi che a sua volta sarebbe stato rovesciato all’inizio del 1979 dalla Rivoluzione di Khomeini. Per contrastare il crescente ascendente sovietico in Afghanistan, gli Stati Uniti hanno armato mujaheddin e islamisti; l’Unione Sovietica si è ritirata e l’America ha ereditato il caos che essa stessa aveva creato appoggiando le forze islamiste nella lotta contro il comunismo. L’Unione Sovietica prima e oggi la Russia hanno conservato un rapporto speciale con la Siria che continuano a coltivare tuttora. Dopo che la Russia è riuscita a convincere il presidente americano Obama a non attaccare la Siria una volta scoperto che aveva usato le armi chimiche contro la propria popolazione, la situazione siriana è entrata in fase di stallo. Vittime di queste manovre sono stati la popolazione civile e i rifugiati che hanno perso la possibilità di veder protetto il proprio libero passaggio ai Paesi limitrofi da una zona “no-fly” vigilata dalla NATO ed eventualmente anche dagli USA.
Forse ora è troppo tardi per ripristinare la stabilità in Siria e dare appoggio all’opposizione senza fare enormi concessioni all’Isis, che nel frattempo sta consolidando il territorio di cui detiene il controllo in Siria occidentale per dar vita a un grande Stato sunnita comprendente anche porzioni dell’Iraq nord-occidentale. Dalla creazione di un qualche tipo di Stato sunnita in questa regione deriverà una spartizione della Siria e dell’Iraq. Probabilmente i soli a guadagnarci saranno i curdi che o avranno finalmente uno Stato proprio o comunque acquisiranno abbastanza autonomia e controllo sui giacimenti petroliferi da restare in qualche misura immuni all’instabilità che li circonda.

c. Non possiamo sottovalutare la ferita inflitta all’animo arabo dall’incessante conflitto tra israeliani e palestinesi. E di certo non si può dimenticare l’ipocrisia dimostrata da parecchi Stati arabi come Giordania, Libano, Siria e Arabia Saudita che hanno sfruttato per il proprio tornaconto la miseria e vulnerabilità dei rifugiati palestinesi. Tutti i Paesi di questa regione – prima o poi – hanno approfittato dell’impasse israelo-palestinese, vuoi per destabilizzare i vicini, vuoi per diffondere la propria visione dell’Islam o istigare all’antisemitismo i cittadini distogliendo l’attenzione dai propri scopi corrotti e autocratici.
Né possiamo trascurare come Israele, che lo volesse o no, abbia drammaticamente ricordato a palestinesi e arabi le debolezze, le tare e i blocchi che riguardano la loro stessa civiltà. Lo sconforto per le condizioni in cui versa oggi il mondo arabo musulmano è anche la disperazione per l’umiliazione subita da parte di Israele. E lo dico da ebrea, che aspira a che Israele si configuri come Stato democratico inserito nel contesto di un Medio Oriente finalmente in pace.
Dal momento che finora non si è riusciti ad arrivare a una soluzione del conflitto, e nella misura in cui il sostegno degli Stati Uniti a Israele non ha conosciuto incertezze, le recriminazioni degli arabi musulmani sono confluite in un velenoso risentimento nei confronti dell’Occidente in generale, che ha portato a convinzioni assurde come quella secondo cui le Torri Gemelle sarebbero state abbattute da aerei guidati non dai jihadisti di Al-Qaeda ma dagli stessi ebrei!

Questo quadro generale di rabbia e disperazione arabo-musulmana può effettivamente spiegarci per quale motivo quei due francesi-algerini abbiano scelto di attaccare Charlie Hebdo e non un qualsiasi altro obiettivo?

Circoscrivere in questo modo il discorso, limitandolo alla questione dell’intolleranza, della blasfemia, dell’apostasia nell’Islam o all’estetica delle vignette di Charlie Hebdo, vuol dire non cogliere il punto. Finché in queste società non avverranno dei cambiamenti e finché la rabbia e l’umiliazione di cui soffrono i musulmani in Europa non verranno mitigate da programmi economici e sociali forieri di un’efficace integrazione ci saranno sempre altri obiettivi, e se non saranno sotto attacco le vignette lo saranno le telenovele, il teatro, i videogiochi o altre forme di espressione culturale. Perché non sono loro la vera causa della rabbia e dello sconforto, ma solo un pretesto per manifestarli.

Molti scienziati sociali, filosofi e critici culturali hanno dedicato la propria vita a rilevare i segnali dell’ascesa del Terzo Reich e del regime hitleriano dall’analisi delle opere di altissimo livello frutto della filosofia, dell’arte e della musica tedesche tra il Diciottesimo e il Ventesimo secolo. Ma nessuno ha mai ritenuto l’estetica del giornale nazista Der Stuermer tra i principali responsabili dell’emergere dell’antisemitismo e del nazionalsocialismo.

Ecco perché dobbiamo anche superare una certa pigrizia intellettuale che rischia di distogliere l’attenzione dalla guerra reale che infuria nei cuori e negli animi del mondo arabo-musulmano per concentrarsi solo su una “guerra di immagini e vignette”. Non sono la devozione o l’empietà che dobbiamo comprendere, quanto piuttosto le fonti della rabbia e dello sconforto musulmano che dobbiamo decifrare, perché finché non ne curiamo la vera origine quella rabbia e quello sconforto troveranno sempre nuove immagini contro cui scagliarsi.

Traduzione di Chiara Rizzo

Leggi la versione originale in inglese su www.resetdoc.org

  1. Circa cinque anni fa parlai, insieme ad un gruppo di insegnanti, con l’imam (italiano convertito) di Milano. A un certo punto disse questo: noi possiamo convivere con i cristiani, ma arriverà un momento in cui la verità dovrà affermarsi e combattere l’errore.
    L’articolo affronta solo la parte che riguarda l’occidente: noi dobbiamo consentire un tenore di vita accettabile, anzichè sfruttare i Paesi arabi per mantenere il nostro livello di benessere. Giusto. Però manca il contributo che deve dare l’Islam: accettare di essere un modo di guardare Dio, ma non “tutto il modo”.

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