Da una partitocrazia all’altra

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La grande slavina, il pamphlet con cui Luciano Cafagna descrisse in diretta la fine della prima Repubblica, è il pezzo più noto di un trittico che forse non venne concepito come tale dall’Autore, ma di cui fanno parte a pieno titolo C’era una volta, che è del 1991, e Una strana disfatta, del 1996. Il primo è dedicato alla fine del Pci, il secondo alla fine del Psi, mentre la Dc resta sullo sfondo, come ha fatto notare Michele Salvati nel presentare la nuova edizione della Slavina in libreria proprio in questi giorni.

Cafagna, però, non aveva mancato di segnalare per tempo anche i sintomi della crisi della Dc. Lo aveva fatto fin dal 1980, quando aveva analizzato “quella peculiare forma di ‘autonomia del politico’” realizzata da Fanfani alla fine degli anni ‘50, poi sfociata in un’altrettanto “peculiare forma di eteronomia dell’economico” che sarebbe stata incarnata dal doroteismo, col quale la Dc “crebbe come ceto politico autosufficiente, orientato cioè alla sempre più esclusiva coltivazione dei propri interessi ‘autonomi’ (piuttosto che di quelli di gruppi rappresentati, di finanziatori, di grandi elettori appartenenti alla ‘società civile’)”: una “eteronomia dell’economico” grazie alla quale “per il sistema delle imprese si passò dall’utilità dell’aiuto statale al bisogno parassitario di questo”, fino a dar luogo ad “una singolare modalità vampiresca di aumento dei poteri di chi gestiva la cosa pubblica e che si nutriva di dissesti aziendali”.

La grande slavina comincia allora, con la castrazione del primo centrosinistra ed il tentativo, in parte riuscito, di “doroteizzazione” del Psi. La partitocrazia, invece, comincia molto prima, con quella che un critico della medesima, come era all’epoca Gaetano Quagliariello, definì “la partitocratizzazione necessaria” dello Stato dopo l’esaurirsi del vento del Nord e delle sue velleità palingenetiche. Ma la partitocrazia repubblicana si nutre abbondantemente, come scrive Cafagna, del “lascito fascista”. E’ col fascismo, infatti, che si era formata “l’abitudine alla presenza di un partito a forte ombrello ideologico, a vita organizzativa intensa, che tentava la mobilitazione continua, ed era dispensatore, insieme, di sicurezze ideali e di pratici riconoscimenti utili”; ma soprattutto è col fascismo che il partito si era fatto Stato.

E’ noto l’inventario che Cafagna conduce di questo asse ereditario e della sua destinazione: la Dc “eredita le attese di assistenza in senso stretto, e inoltre la funzione di mediazione generale verso lo Stato […] presso il notabilato economico e sociale di tutta Italia, […] nonché i mezzi e la tecnica per la strumentalizzazione del diffuso parastato di fascistica origine”; il Pci “eredita invece […] l’attesa sociologica di una ‘successione’ totalitaria al fascismo, la funzione di manipolazione ideologica della incertezza sul futuro prodotta dal mutamento, la disponibilità di massa agli appelli di piazza e ad ampi inquadramenti, a una partecipazione mobilitata, a uno statalismo che però […] si auspica più sociale, più generale, possibilmente non favoritistico”. Ed è anche noto che fu Giuliano Amato, nel discorso che pronunciò alla Camera nell’aprile del 1993 per annunciare le dimissioni del suo governo, a trasferire l’analisi di Cafagna nel vivo di una drammatica attualità politica, quando osservò che quello che si chiudeva era il ciclo del partito-Stato, inaugurato dal fascismo, ma non modificato nel passaggio dal partito unico al pluralismo dei partiti.

La strana disfatta

Quanto alla “partitocratizzazione necessaria” della Repubblica, Cafagna ricorda che per la verità, dopo il referendum istituzionale, l’alternativa avrebbe potuto essere incarnata da Nenni, che “avrebbe potuto essere il leader ‘populista’, o popolare-democratico, della nuova democrazia italiana”, attingendo a sua volta a un altro ramo del “lascito fascista”. Nenni però non volle essere “il romagnolo di turno”. Ma un’opportunità analoga, alla fine degli anni ’70, si offrì a Bettino Craxi, “il Francis Drake del socialismo italiano”. Come scrisse Stefano Folli nel necrologio che gli dedicò sul Corriere della Sera, Craxi però “non seppe o non volle capire che la sua figura aveva già spezzato i vincoli e le gabbie di un sistema partitico (o francamente partitocratico) ormai logoro”. Per cui il leader politico che “come nessun’altro capì […] cose che, se sei un genio, […] fai una di quelle rivoluzioni che sfondano e costruiscono un mondo nuovo”, sottovalutò che “se non lo sei, il solo fatto di averle capite non basta e finisce per ucciderti”, come infatti avvenne, e come scriverà anni dopo.

Finì così la partitocrazia della prima Repubblica, della “Repubblica dei partiti”. Nei primi anni ‘90, però, nessuno avrebbe potuto immaginare che essa sarebbe stata seguita da una “partitocrazia senza partiti”, per usare il titolo di un dossier che pubblicammo due anni fa su Mondoperaio . Cafagna, come ha ricordato poco fa Pombeni, era scettico sul carattere salvifico della riforma elettorale. Del resto, apota com’era, nutriva forti dubbi sulla effettività delle rotture palingenetiche nella storia d’Italia: così come aveva segnalato la continuità del “lascito fascista” nonostante la rottura del secondo dopoguerra, non aveva bevuto la storia di un’automatica transizione del nostro sistema politico al bipolarismo dopo la rottura di “Mani pulite”. Se non altro perché sapeva che l’alternativa di sinistra andava combattendo ma era morta; poi perché poteva succedere che le rovine di Tangentopoli finissero per “nuocere maggiormente al partito che ne è rimasto più fuori degli altri”; ed infine perché pensava “che la vera alternativa che si andava profilando all’orizzonte era quella, completamente inedita, di una maggioranza costituita dalla neo-formazione leghista di Umberto Bossi”.

Per Cafagna, invece, i partiti andavano “salvati dalla crisi della partitocrazia”, come è stato già ricordato: ovviamente non con una impossibile restaurazione dello status quo ante, ma avvicinando il più possibile la forma dei partiti al modello di altri paesi europei, specialmente di quelli che non avevano vissuto l’esperienza del partito-Stato. Anche per questo nel 1997 aveva pensato che valesse la pena impegnarsi per “una cosa grande”, come avrebbe dovuto essere quella socialdemocrazia italiana di cui allora sembrava possibile la creazione, e che poi si sarebbe rivelata soltanto un’indefinibile “Cosa due”.

Del resto, proprio perché diffidava dei partiti “leggeri” almeno quanto diffidava di quelli “pesanti” della prima Repubblica, nel 1993 propose di formare una “Alleanza per il rinnovamento democratico”, una convergenza programmatica dei partiti dell’arco costituzionale capace di affrontare la crisi fiscale, oltre alla crisi morale. Solo dopo il risanamento sarebbe stato possibile avere una effettiva democrazia dell’alternanza. E comunque non ci si doveva far irretire dalla retorica delle “facce nuove”, perché c’era bisogno “di facce pulite e competenti, e quindi conosciute”, mentre “le facce nuove e sconosciute possono rivelarsi la peggiore feccia di questo mondo”.

Non a caso, quindi, negli ultimi anni della sua vita Luciano scelse di accompagnarsi a tante altre “facce conosciute” nel riprendere le pubblicazioni di Mondoperaio ed alimentare la collana su “Gli anni di Craxi” diretta da Gennaro Acquaviva. Nel suo ultimo intervento sulla rivista, a novembre dell’anno scorso, tornava sugli stessi argomenti, osservando che “il fatto che in Italia ci sia in questo momento spazio per soluzioni di tipo ‘grosso-coalizionale’ […] per un verso può apparire come una ragionevole proposta di concordia nazionale di fronte alla gravità dei problemi, ma per altro verso appare piuttosto come l’effetto dell’incertezza e dell’incapacità di proporre un’alternativa dotata di chiarezza”; ed auspicava che, per mantenere una “prospettiva che della sinistra faccia salva la dignità”, la sinistra italiana sapesse “agganciare realisticamente il percorso verso un futuro capace di recuperare la speranza a un presente difficile, con le sue sgradevolezze”, con un programma sociale che risanasse e riprendesse “la prospettiva socialista di un moderno welfare state” e si lasciasse alle spalle “la ricerca affannosa di formule che vadano al di là del socialismo e del laburismo”. E’ la speranza che ci impegniamo a continuare ad alimentare, pur dovendo fare a meno della sua lucidità.

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