Costruire il Sé, costruire l’Altro

L’articolo riproduce l’intervento tenuto dall’autrice il 9 dicembre 2011 all’incontro “Background of Xenophobia” organizzato dall’associazione ResetDoc presso l’Institute for Public Knowledge della New York University.

Non sono d’accordo nell’affermare che la xenofobia sia endemica alla cultura e alla società umana; quel che è endemico è una specie di differenziazione tra il «sé» e «l’altro». La forma assunta da questa differenziazione in termini storici o culturali può essere discussa, ma non dovremmo lasciarle una scappatoia sin dall’inizio del dibattito. Vorrei parlare invece dell’esperienza degli lavoratori stagionali turchi in Germania negli ultimi cinquant’anni e allargare la mia riflessione ad altre tematiche incluse nel panel.

Concentrerò la mia attenzione su questa comunità di lavoratori perché credo, a prescindere dall’opinione altrui, che sia molto più emblematica di quella marocchina in Francia o di quella albanese in Italia in termini di integrazione, mancata integrazione e immigrazione in Europa (oltretutto è un tema che conosco bene per aver lavorato e studiato in Germania). Quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario dei cosiddetti accordi di Ankara in base ai quali la forza lavoro turca iniziò ad arrivare nella nazione tedesca; un evento celebrato in pompa magna dai politici su entrambe le sponde. L’inchiostro sui discorsi ufficiali non si era ancora asciugato quando la comunità turca e altri cittadini si sono ritrovati ad affrontare una serie di omicidi in un paese della vecchia Germania orientale chiamato Zwickau noti alla stampa come i “Döner-murders” (il Döner è la carne arrostita su uno spiedino, una pietanza popolare in tutte le città del Mediterraneo e meglio nota come kebab).

Gli omicidi avevano come obiettivo alcuni ambulanti turchi– alcuni vendevano fiori, altri kebab– e sono stati messi in atto da gruppi neonazisti. Negli scontri ha perso la vita anche una donna poliziotto e gli assassini sono stati riconosciuti solo in un secondo momento. L’episodio ha riportato alla memoria della comunità turca, che sta andando incontro ai sessant’anni di permanenza nella Germania unita, l’incendio a Moelln (Schleswig-Holstein) in cui persero la vita tre donne turche nel 1992 quando una palazzina venne incendiata e una nonna morì ustionata insieme alle due nipotine. Non sono allarmista, né voglio credere che la società tedesca stia iniziando una crociata contro i migranti turchi radendo le loro case al suolo. Ma c’è qualcosa di molto sbagliato nel fatto che persino dopo tre generazioni i crimini dettati dall’odio contro gli stranieri, contro stranieri che sono visibilmente tali, continuano ad accadere. È ancora più preoccupante, forse, che gli intellettuali della comunità turca stiano iniziando a puntare il dito, sfiduciati dalla possibilità che lo Stato tedesco sia lì per proteggere anche loro. Questa è la situazione attuale, ma come ci siamo arrivati?

La presenza della forza di lavoro turca in Germania era dovuta alla necessità di alimentare il miracolo economico dopo la guerra. Persino l’espressione “guest-worker” adottata per questi operai suggeriva l’idea che non fossero immigrati. In realtà i paesi europei hanno una politica per l’immigrazione di lavoro e ne hanno una anche per il ricongiungimento familiare: non tutti gli stranieri che arrivano legalmente in Europa sono rifugiati o richiedenti asilo; per molti anni c’è stata una politica di reclutamento di forza lavoro molto attiva. Di che cifre parliamo? Le più grandi comunità di cittadini nati da famiglie straniere si trovano in Germania e Austria, dove rappresentano il 9-10% della popolazione; Olanda e Francia si collocano in una fascia intermedia con il 6% mentre in Italia e Spagna questi cittadini costituiscono solo il 4% della popolazione. Ma a causa di queste cifre, che in molti paesi non sono poi così allarmanti, si è andato costituendo un atteggiamento che definirei di “stranierizzazione” dei lavoratori marocchini e turchi, dei rifugiati politici provenienti dall’Afghanistan e dall’Iraq.

Questo processo avviene in parte perché nel frattempo molti cittadini italiani, tedeschi e greci, che a loro volta in passato sono stati reclutati per contribuire alla crescita dell’Olanda, il Belgio, la Francia e la Germania, sono diventati “Europei”. A quel punto gli altri cos’erano, se non cittadini di terze nazionalità, soprattutto musulmani? In pratica è avvenuta una ricostruzione dell’identità dello straniero in base al presupposto dell’immigrazione, come se gli stranieri che arrivano in un paese portino la scritta “Islam” tatuata in fronte: è puro nonsense. L’identità di ciascun migrante dipende sia dai regimi di invio– i regimi che spediscono i propri cittadini altrove– che da quelli di accoglienza.

Le identità dei migranti si costituiscono dinamicamente in base alle interazioni tra i paesi di origine e quelli di destinazione. Le comunità di immigrati turchi, per esempio, sono diventate sempre più religiose in seguito agli sviluppi avvenuti in madrepatria e all’ascesa dell’AKP ma anche perché, a partire dagli anni Ottanta, molti conservatori tedeschi hanno iniziato a introdurre scuole dove si insegna il Corano. Volute dal CDU-CSU, queste scuole erano destinate alla comunità musulmana– sia essa composta da turchi, marocchini o afghani– in base all’idea che fosse meglio per loro disporre di un’educazione altamente religiosa. Oggi c’è un grosso dibattito sul fatto che il modo migliore per integrare la comunità turca sia istituire le cosiddette Muslimische or Islamische Glaubensgemeinde.

In parte questo si lega a una dinamica tipicamente tedesca che riconosce il Protestantesimo, il Cattolicesimo e l’Ebraismo come religioni ufficiali (la Germania non è una nazione laica e se appartieni a una Chiesa o a una Sinagoga, paghi una tassa chiamata Kirchensteuer). Il problema è che questo discrimina chiaramente i musulmani tedeschi che non dispongono di aiuti statali per costruire le proprie moschee o costituire delle associazione e così via. Quindi viene messa in dubbio la neutralità dello Stato, che in teoria dev’essere costituzionalmente bilanciata attraverso il riconoscimento delle varie comunità. Di fatto, però, questo non fa altro che rinforzare una definizione di identità collettiva a discapito di altre definizioni di identità collettiva, quando nella stessa Turchia il conflitto tra l’identità laica e quella musulmana– e ciò che essere musulmano significa davvero– viene messo in questione. Dobbiamo pertanto prestare attenzione alla costruzione delle identità religiose, e in particolare quella musulmana, nel contesto europeo.

Ogni comunità straniera in Europa ha una propria storia e traiettoria alle spalle. Non tirerò in ballo la Francia, che ha dei legami profondi con la Guerra d’Algeria e l’esperienza coloniale e perciò non è accostabile all’interazione turco-tedesca. Sta di fatto che dall’undici settembre si sono accumulati diversi fattori che si preparano a dare luogo alla tempesta perfetta per quel che riguarda l’Islam in Europa. Qui concordo con Ian Buruma: ci ritroviamo ad affrontare sia una stagione di insicurezza economica– l’Europa è di fronte alla crisi peggiore degli ultimi trent’anni– che un contesto di alienazione politica dove l’Unione diventa un’istituzione sempre più tecnocratica e meno intellegibile ai suoi cittadini normali. Per citare Bauman, in questo contesto “strangers are dangers” e diventano pericoli sempre più consistenti in condizioni di alienazione politica ed economica. Gli stranieri sono visibili, ne “senti l’odore” e non ti piace, etc.

A complicare il quadro, siamo nel mezzo di una crisi profonda della classe dirigente politica a livello globale. Ritengo che la globalizzazione tecno-mediatica abbia ucciso gli uomini e le donne di Stato indipendenti e degni di onore. I nostri politici sono bugiardi, sono intrattenitori o fenomeni da baraccone e questo ha a che fare con la politica di stampo televisivo dei nostri tempi. Basta pensare al mondo in cui eleggiamo e detronizziamo i nostri candidati, alla sciarada della politica americana negli ultimi mesi: il sesso vende ma distoglie anche l’attenzione da tutto ciò che è significativo.

In terzo luogo, c’è dell’opportunismo da parte degli intellettuali. Lo definisco opportunismo perché la risposta intellettuale al caso Salman Rushdie non vuole condannare l’Islam ma marcare una distinzione tra Khomeini, che ha annunciato la fatwa contro lo scrittore, e tutti gli altri. Come ogni tradizione civile o ogni religione importante, l’Islam è pieno di discussioni e dibattiti al suo interno, pieno di persone tolleranti o fanatiche. A che punto siamo se gli intellettuali europei– soprattutto francesi e tedeschi– credono che l’Illuminismo coincide in tutto e per tutto con una specie di Fondamentalismo Protestante? Questo significa lasciare spazio solo a un modello di relazione tra politica e religione che dovrebbe dominare in tutta Europa. Bene, questo modello non c’è, ce ne sono tanti. La Turchia, per esempio, sta imitando la Francia che è uno dei paesi più laici al mondo. Gli Stati Uniti, altro esempio, dispongono del Primo Emendamento, la cui storia non può essere ricostruita in base a una banale opposizione come “tolleranza” e “fanaticismo”.

Invece di produrre un serio dialogo multiculturale tra le varie civilizzazioni, il cui scopo è cercare di capire il punto dell’altro e intrattenere una conversazione, alcuni intellettuali europei e americani– che continuano a parlare di “islamo-fascismo”– hanno ostacolato qualsiasi canale di comunicazione. C’è stato il dibattito sul velo, in cui “ogni donna che si copre la testa lo fa in segno di sottomissione”; ci sono stati delitti d’onore “ogni padre o fratello turco è disposto a uccidere la figlia o la sorella se va con un altro uomo”, c’è la questione dei matrimoni combinati, etc. Non è che le comunità immigrate non abbiano questi problemi, ma se questi elementi sono i primi a essere presi in considerazione quando si parla dell’altro, l’alterità viene ridotta solo a uno scandalo. E scandalo non è mai sinonimo di conversazione seria. Se si vuole lavorare davvero su queste comunità bisogna prendere a modello l’iniziativa di alcuni gruppi di donne che vanno sul posto e cercano di avviare un dialogo concreto.

Al momento la politica europea non suscita ottimismo, per me la speranza proviene dai margini dell’Europa. Viene da queste nuove generazione di migranti che si auto-definiscono turchi “mishmash”, che non parlano perfettamente la lingua ma sono in grado di rispondere e non si limitano a farsi etichettare. Credo anche che, seppur con tutti i suoi problemi, la Primavera Araba ci abbia insegnato che l’Islam è capace di cambiare strada. Non è stata solo la morte di Osama bin Laden a mettere fine ad Al-Qaeda, Al-Qaeda è morta in tanti paesi arabi e del Nord-Africa perché sono stati i giovani a respingerla. E con qualche speranza, saranno proprio loro a rilanciare il dibattito con l’Europa.

(Traduzione di Claudia Durastanti)

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